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Jangama dhyana
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Jangama dhyana

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L'espressione sanscrita Jangama dhyana, coniata da Shri Shivabalayogi Maharaj (1935, 1994), intende indicare quella tecnica di meditazione che prevede la concentrazione, ad occhi chiusi, di "mente" e vista sullo spazio compreso tra le sopracciglia.

Questa tecnica meditativa è alla base dell'insegnamento di Shivabalayogi e di quello del suo discepolo diretto Shivarudra Balayogi (1954, -) per il raggiungimento della realizzazione del Sé.

Shivabalayogi ne indicò il significato come "meditazione sull'esistenza eterna [del Sé]".

La tecnica

Questa la tecnica Jangama dhyana:

Siedi con gli occhi chiusi;
concentra mente e vista sullo spazio tra le sopracciglia;
continua a guardare quel punto, concentrando l'attenzione;
non ripetere alcun mantra o nome di divinità;
non immaginare nulla;
non aprire gli occhi prima del termine della meditazione.

Shivarudra Balayogi identifica il più grande segreto della meditazione nel non analizzare alcun pensiero o visione che potrebbero insorgere (visioni ed esperienze non sono importanti; l'unico segno di progresso è una maggiore pace):

«Questa meditazione è un processo di purificazione, ma la purificazione non avviene tranquillamente. Durante la purificazione sopravvengono visioni e pensieri. È come quando lavi i panni e vedi lo sporco riversarsi nell'acqua. Nello stesso modo, quando la mente sperimenta la purificazione, si verificano pensieri e visioni. Ma questi si verificano solo per un momento per poi scomparire. Per questo dobbiamo essere particolarmente cauti perché, se stiamo guardando, la mente potrebbe facilmente farsi coinvolgere nei pensieri e, se si fa coinvolgere, può acquisire ulteriori impronte. Questa riacquisizione è così impercettibile! Ecco perché è importante non analizzare i pensieri durante la meditazione; e questo spiega anche perché la completa pulizia della mente richiede tempo.»

Il nome

Il nome della tecnica venne coniato da Shivabalayogi, una notte passeggiando attorno al Dehradun ashram insieme al discepolo Seenu. Il maestro si voltò improvvisamente verso l'allievo dicendo:

«Sarebbe forse bello dare il nome di Jangama dhyana alla tecnica che stiamo insegnando in tutto il mondo. Inizialmente fu Shiva ad apparirmi nelle spoglie di un saggio Jangama per impartirmi questa tecnica, e jangama significa "esistenza eterna"; quindi Jangama dhyana significherebbe "meditazione sull'esistenza eterna del Sé"..»

Shivabalayogi descrisse il modo in cui avvenne la sua iniziazione alla tecnica, il 7 agosto 1949 all'età di 14 anni, quando ebbe la visione di un saggio Jangama (questo è infatti anche il nome di un antico ordine religioso ascetico e itinerante) che gli chiese di sedere nella posizione del loto e di chiudere gli occhi, prima di toccarlo tra le sopracciglia dicendo: "guarda qui". Per i successivi dodici anni Shivabalayogi sedette quindi in profonda e prolungata meditazione, chiamata tapas, meditando 23 ore al giorno per i primi 8 anni e circa 12 ore al giorno per i successivi 4 anni. Dopo questo periodo, ottenuta la realizzazione del Sé, Shivabalayogi diede iniziazione alla stessa tecnica da lui impiegata a migliaia di persone.

Nel 1994, Shivabalayogi avviò alla pratica di tapas meditante la tecnica del Jangama dhyana il discepolo Seenu, il quale, dopo aver meditato per circa 20 ore al giorno per cinque anni, raggiunse la realizzazione del Sé nel novembre del 1999, prendendo il nome di Shri Shivarudra Balayogi.

Precedenti

Una tecnica analoga a quella diffusa da Shivabalayogi è presente già nella Bhagavadgītā, la cui redazione va probabilmente collocata tra V e II secolo a.C. Quando la mente è totalmente concentrata sullo spazio tra le sopracciglia, la persona assumerebbe il comando della propria mente, raggiungendo la totale padronanza di sé:

«Quella persona che, cacciando dalla mente i superflui oggetti esterni dei sensi, fissando lo sguardo tra le sopracciglia, esercitando il controllo del respiro - prāṇa e apāna - di passaggio attraverso le narici;
quella persona in controllo di sensi, mente e intelletto, dedita alla liberazione, priva di desiderio, paura e rabbia;
di fatto quella saggia persona è liberata per sempre.»

Il filosofo indiano del III-IV secolo Patañjali indica questo come uno dei metodi per raggiungere l'iniziale concentrazione (dharana; vedi Patañjali: Yoga Sūtra, III: 1) necessaria perché la mente si faccia introspettiva e per entrare nello stato di meditazione (dhyāna; vedi Patañjali: Yoga Sūtra, III:2).

Yoga Vasistha, testo in sanscrito composto tra VI-VII secolo e XII secolo, menziona questo tra i modi per rendere la mente quiescente:

«Mente e movimento di pensiero sono inseparabili; la cessazione di uno è la cessazione di entrambi.»

Il mistico indiano Ramakrishna Paramahamsa (1836-1886), sotto indicazione del monaco Totapuri (c.1780-c.1866), praticò la tecnica di meditazione tra le sopracciglia per raggiungere lo stato di nirvikalpa samadhi, nel quale la mente, oltre ogni immaginazione, raggiunge totale immobilità. Così descrisse Ramakrishna il momento in cui il maestro lo avviò a questa pratica nel 1864:

«Avendo trovato un pezzo di vetro, lo prese e appiccicò tra le mie sopracciglia... "Concentra la mente su questo punto!" tuonò. Allora, con ferma determinazione tornai a sedere in meditazione... L'ultima barriera crollò. Immediatamente il mio spirito si innalzò al di sopra del livello del relativo e io mi persi in samādhi

Più tardi lo stesso Ramakrishna avrebbe guidato il suo illustre discepolo il mistico indiano Swami Vivekananda (1863-1902) all'impiego di questa tecnica. Nella pratica avanzata, la mente, concentrata tra le sopracciglia, inizia automaticamente a perdere ogni cognizione di luogo e si concentra sull'atto stesso dell'osservare. A un certo punto il meditatore non esperisce altro che la coscienza dell'esistere e raggiunge la realizzazione del Sé. Così descrive il processo Swami Vivekananda:

«Quando la mente è stata esercitata a rimanere fissa su un certo punto, esterno o interno, essa ottiene il potere di fluire come in una corrente ininterrotta diretta a quel punto. Questo stato si chiama dhyāna. Quando una persona ha intensificato il potere di dhyana al punto da essere in grado di rifiutare ogni parte esteriore della percezione e di rimanere in meditazione esclusivamente sulla parte interiore della percezione, ovvero il suo significato, lo stato allora raggiunto si chiama samādhi

Bibliografia

  • The Life of the Swami Vivekananda, Volume I, 1979, Advaita Ashrama.
  • Yoga Vasistha, traduzione inglese di Swami Venkatesananda, New Delhi, 2013, ISBN 978-81-7822-260-8.
  • Il canto del beato (Bhagavadgītā), a cura di B. Neroni, Messaggero, Padova, 2002, ISBN 88-250-1170-9.
  • Ramachandra Rao, S.K., Sri Shivabalayogi, G. Srinivasan, Proprietor Orient Power Press, Bangalore, 1968.
  • Chryssides, George D., Historical Dictionary of New Religious Movements, The Scarecrow Press, Inc.; Lanham, Toronto, Plymouth (UK), 2012, ISBN 978-0-8108-7967-6.
  • Hopkins, Charles and Carol, From the Heart of Peace, 2007, ISBN 1-59975-866-0.
  • M. [Mahendranath Gupta], The Gospel of Sri Ramakrishna, traduzione Inglese di Swami Nikhilananda, Ramakrishna Math, Madras, India, 1944, edizione inglese online.
  • Young, Bruce: Beyond bliss, Sorrento (Australia), 2006, ISBN 0-9758478-0-5.
  • Young, Bruce, Guru-Disciple, 2008, ISBN 978-0-9758478-3-1.
  • Swami Vivekananda, The Complete Works of Swami Vivekananda, I volume: Raja-Yoga, edizione inglese online.

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